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Africa, migrazioni e sviluppo ai tempi del COVID-19: alcune criticità

COVID-19  2019-nCoV concept. Human hands holding various smart devices with coronavirus alerts on their screens. flat vector illustration

Il ruolo delle migrazioni nella risposta al coronavirus è stato sin da subito particolarmente difficile da valutare. In un primo momento, ben prima che la diffusione del COVID-19 fosse classificata dall’OMS come pandemia, le preoccupazioni si erano soffermate sui rischi rappresentati della circolazione di persone dalla Cina verso altre regioni del mondo. Nel dibattito pubblico le migrazioni sono state considerate allo stesso tempo come il prodotto pericoloso della globalizzazione e una minaccia per la salute pubblica, alimentando le posizioni dei partiti populisti e legittimando razzismo e xenofobia. In un secondo momento, invece, le migrazioni hanno perso centralità nel dibattito europeo nonostante le tensioni alla frontiera esterna orientale e meridionale dell’Unione Europea. Seppur con tempistiche variabili, i governi europei hanno iniziato a contenere il virus attraverso misure di distanziamento sociale, cercando allo stesso tempo di ridurre l’impatto della pandemia sulle attività economiche dei paesi o del blocco europeo.

Analisi così polarizzate e parziali non permettono di cogliere appieno il ruolo che le migrazioni giocano nella società europea e in quella dei paesi di origine, anche in tempi di crisi, e di sviluppare strategie nel breve e lungo termine. Come evidenziato in un’analisi di ISMU sull’immigrazione ai tempi del Coronavirus, l’emergenza rischia di esacerbare aspetti delicati all’interno degli stessi paesi europei come la salute dei migranti (specialmente gli irregolari), il sovraffollamento delle strutture di accoglienza, il destino dei richiedenti asilo e la precarietà lavorativa. Dal momento che le migrazioni sono un fenomeno transnazionale, tuttavia, l’emergenza avrà anche un impatto sui paesi di origine, in particolare in Africa, mettendo in luce il complesso rapporto tra migrazioni e sviluppo. Nel quadro della sua linea strategica “Immigrazione e futuro dell’UE”, ISMU svolge un monitoraggio costante degli eventi rilevanti e un’analisi dell’impatto del COVID-19 sulle migrazioni in Africa e dall’Africa all’Europa.

Proponiamo di seguito alcune riflessioni sulle criticità che i paesi di origine africana si trovano e/o si troveranno ad affrontare a causa della diffusione del COVID-19.

Il crollo delle rimesse

Le misure di contenimento del COVID-19 in Europa e la contrazione economica che ne è derivata stanno già coinvolgendo i migranti africani regolari e irregolari. La crescente disoccupazione e precarietà lavorativa, la mancanza di protezione sociale e il difficile accesso ai servizi di money transfer probabilmente ridurranno le rimesse che vengono inviate periodicamente nei paesi di origine. Questo crollo interromperà la lenta e variabile accelerazione del flusso di rimesse iniziata nel 2017 a seguito di un periodo di ribasso o stagnazione e avrà certamente un impatto sul reddito delle famiglie in Africa che dipendono largamente da queste risorse per coprire le spese primarie. La scala dell’impatto varierà da paese a paese a seconda del peso delle rimesse sul PIL nazionale: per esempio se in Burkina Faso il peso è pari al 3,2% (2018), in Senegal arriva al 10,1% del PIL nazionale (2018).

Le condizioni dei titolari di protezione internazionale in Africa

I titolari di protezione internazionale sono un gruppo particolarmente a rischio nel contesto dell’emergenza COVID-19. I rifugiati e richiedenti asilo presenti in paesi africani – come Sudan e Uganda – vivono in campi densamente popolati o in aree urbane povere senza avere accesso a risorse idriche e servizi igienico-sanitari adeguati e senza poter rispettare le misure di contenimento sociale che si stanno rivelando efficaci in Europa. In seguito a sollecitazioni internazionali, UNHCR ha adottato misure di prevenzione nei campi gestiti in Sudan, Etiopia, Burkina Faso, Repubblica Democratica del Congo e Chad. Tra queste vi sono state la formazione di operatori e titolari, il rafforzamento dei servizi igienico-sanitari e il sostegno finanziario e logistico ai governi dei paesi di accoglienza.

La sospensione temporanea dei reinsediamenti (resettlement) da parte dell’UNHCR rischia di esacerbare le condizioni di molti rifugiati già considerati vulnerabili. Il reinsediamento in un paese terzo è l’unica soluzione durevole, sicura e percorribile che UNHCR adotta per i rifugiati che non possono o non vogliono tornare a casa perché sarebbero sottoposti a continue persecuzioni o che hanno necessità specifiche che non possono essere soddisfatte nel paese in cui hanno cercato protezione. Nonostante l’impegno dei paesi europei a garantire più di 30.000 posti per il 2020, la domanda di reinsediamenti stimata in Africa per lo stesso anno è in aumento e sarà la più alta a livello globale. Alla luce della chiusura della frontiera esterna europea a metà marzo, il modo in cui l’UE e gli stati membri gestiranno la mobilità internazionale nei prossimi mesi sarà cruciale nel decretare il futuro del reinsediamento di molti cittadini africani.

La chiusura delle frontiere in Africa

Dall’inizio della pandemia molti paesi africani hanno deciso di chiudere le frontiere e di adottare misure di contenimento della mobilità interna. Nonostante in alcuni stati l’opinione pubblica sembra abbia accolto positivamente tali misure, queste decisioni si pongono in forte discontinuità rispetto ai trend di un continente in cui oltre la metà della migrazione avviene tra paesi africani e rispetto ai recenti sforzi istituzionali volti a garantire la libera circolazione delle persone in Africa e un’area di libero scambio africana. È lecito domandarsi se l’emergenza COVID-19 rallenterà il processo di integrazione africana sul tema della mobilità o se stimolerà una maggiore cooperazione regionale.

La tenuta della sanità e dei sistemi di welfare

Come è emerso nella risposta alla pandemia data dai paesi occidentali, la sfida principale è stata ad è, almeno nell’immediato, la tenuta della sanità e lo sviluppo dei sistemi di welfare, elementi fondamentali per curare gli infetti ed evitare il contagio di cittadini sani. Questa logica è difficilmente applicabile a molti paesi africani a causa del sottosviluppo delle infrastrutture e dei servizi e a causa della mancanza di ammortizzatori che permettano ai cittadini, spesso attivi nell’economia sommersa, di sostenersi anche in caso di un lockdown. L’esodo di massa dalle zone urbane alle zone rurali che si è registrato in alcuni paesi ha non solo gettato le basi per un contagio più rapido e capillare nei prossimi giorni, ma potrebbe rivelare anche la mancanza di servizi nelle zone più povere e diventare un fattore strutturale di eventuali “migrazioni sanitarie”.

La crisi del settore agricolo

La forte dipendenza delle economie africane dall’agricoltura non sarà d’aiuto nel contrasto alle conseguenze economiche della pandemia. Da un lato, la pandemia ha già avuto un impatto su economie fortemente ancorate all’agricoltura condizionando i prezzi dei prodotti coltivati dai piccoli e medi agricoltori e rivenduti sul mercato africano e mondiale. Dall’altro, l’approvvigionamento alimentare è stato destabilizzato dall’esodo di manodopera e dagli eventi ambientali avversi legati alla crisi climatica globale tra cui va citata l’invasione delle locuste in Africa orientale. Questi elementi hanno spinto il World Food Programme delle Nazioni Unite ad esprimere le proprie preoccupazioni riguardo ad una crisi alimentare nel Sahel.

di Luca Merotta, Ricercatore Fondazione ISMU