Ambrogino d’oro, a Fondazione ISMU l’Attestato di Civica Benemerenza
30 Novembre 2020
Ambrogino d’oro 2020. A Fondazione ISMU l’Attestato di Civica Benemerenza – Comunicato stampa 7.12.2020
3 Dicembre 2020
Ambrogino d’oro, a Fondazione ISMU l’Attestato di Civica Benemerenza
30 Novembre 2020
Ambrogino d’oro 2020. A Fondazione ISMU l’Attestato di Civica Benemerenza – Comunicato stampa 7.12.2020
3 Dicembre 2020

È il momento della saggezza nella scelta del futuro che vogliamo costruire

In un quadro quasi totalmente egemonizzato dalla pandemia e dal suo impatto sulla società e l’economia, è quasi passato sotto silenzio uno dei dati più inquietanti dell’ultimo Rapporto Istat sulla situazione del Paese (2020): le impressionanti dimensioni delle forze lavoro non utilizzate e potenzialmente impiegabili. Secondo la quantificazione dell’ente statistico nazionale, alla vigilia della pandemia (fine 2019) si trattava di circa 5,5 milioni di persone, di cui 2,6 milioni di disoccupati e 2,9 milioni di forze lavoro potenziali. Un esercito “di riserva” formato per oltre la metà da donne (53,2%) e per il 40,7% da giovani.

Verosimilmente destinato a crescere per effetto di una crisi sanitaria ed economica che ha bruscamente interrotto la ripresa “asfittica” che l’Italia aveva faticosamente imboccato. Mietendo le sue vittime in particolare tra le donne – sulle quali continua a gravare l’onere di una conciliazione famiglia/lavoro posta ancor più sotto pressione dai provvedimenti adottati per contenere il contagio – e tra i lavoratori meno tutelati – tra i quali sappiamo essere sovra-rappresentati i più giovani –.

Focalizzando l’attenzione sulla popolazione immigrata, sono ancora una volta le donne e i giovani (e in particolare le giovani donne) coloro che hanno maggiori probabilità di restare (per sempre?) ai margini del mercato del lavoro.

Riguardo alle donne, la loro segregazione occupazionale nel lavoro domestico (settore che assorbe ben 4 straniere occupate su 10, senza contare l’immenso collettivo di lavoratrici irregolarmente impiegate), se per un verso ha costituito in tutti questi anni la “ragione” della straordinaria capacità di inclusione occupazionale manifestata dalle lavoratrici straniere (in un mercato tradizionalmente poco “amichevole” verso le donne come quello italiano) ha in questi mesi mostrato la sua natura fortemente discriminatoria. Ancorché formalmente annoverate tra i lavoratori a tempo indeterminato, le collaboratrici familiari possono essere “dismesse” in qualsiasi momento e con un brevissimo preavviso. Le straniere che in questi mesi hanno perso repentinamente il proprio lavoro – magari perché licenziate nel periodo del lockdown – sono così andate ad alimentare l’esercito invisibile delle disoccupate straniere.

Le performances occupazionali delle donne immigrate sono alquanto differenziate a seconda della loro nazionalità, riflettendo sia i diversi livelli di partecipazione al mercato del lavoro (con tassi di attività che vanno dall’“inquietante” 10,6% della pakistane allo straordinario 74,8% delle filippine, di quasi nove punti percentuali più elevato rispetto al tasso delle stesse italiane), sia la loro facilità/difficoltà a trovare un impiego; con la paradossale conseguenza che i tassi di disoccupazione sono più elevati proprio nelle comunità che registrano alti tassi di inattività femminile: il caso più eclatante è quello delle donne egiziane, che abbinano un tasso di inattività dell’83,5% a un tasso di disoccupazione del 54,3%. In termini complessivi, assommando lo svantaggio associato al loro status migratorio a quello di genere, le donne straniere si ritrovano con un tasso di disoccupazione che è quasi il doppio rispetto a quello degli uomini italiani.

Tra gli altri fattori che spiegano comportamenti e performance delle donne straniere, il trade-off tra il ruolo familiare e la partecipazione al mercato occupazionale risalta in modo ancor più nitido di quanto non avvenga per le donne italiane. Il peso degli ostacoli comuni anche ad altri Paesi – un numero di figli mediamente più elevato, difficoltà economiche nell’accedere ai servizi di cura a pagamento, impossibilità di attivare reti informali di supporto – è in Italia sicuramente accentuato dalla complessiva debolezza del sistema della conciliazione che penalizza le donne immigrate ancor più di quelle autoctone, portando a percentuali altissime di donne 18-64enni che, nell’ambito di alcune comunità immigrate, dichiarano di doversi occupare della cura dei figli o di altri familiari: 95,2% delle egiziane, 75,2% delle tunisine, 72,2% delle bangladesi, 70% delle pakistane.

Per di più, i caratteri del modello italiano di integrazione esasperano le richieste di flessibilità che si scontrano con le esigenze della vita familiare: solo per fare un esempio, le immigrate hanno una probabilità del 15% più elevata rispetto alle donne italiane di essere occupate in mansioni svolte anche in orari atipici (la sera/notte o i giorni festivi e prefestivi). Questa circostanza concorre a spiegare il fenomeno dell’inattività femminile, specie all’interno di alcuni gruppi nazionali, insieme ad altri fattori che sappiamo influire sui comportamenti dell’offerta di lavoro femminile, quali il livello di istruzione (che tanto più è basso quanto più è probabile l’uscita dal mercato alla nascita del primo figlio), le basse retribuzioni (che ovviamente influenzano le scelte di allocazione tra lavoro familiare e lavoro retribuito e la possibilità di accedere ai servizi di supporto[1]), l’assenza dei nonni (che in molti casi non vivono in Italia) e le capacità di negoziazione col partner (che possiamo ipotizzare meno presenti nelle donne arrivate tramite la procedura di ricongiungimento familiare). Altrettanti fattori che spiegano come, sebbene la conciliazione resti in Italia una questione tutt’altro che risolta, il 57,2% delle donne italiane con carichi di cura risulta comunque occupata, rispetto al 48,1% delle straniere comunitarie e addirittura al 35,5% di quelle extra-comunitarie. Il fenomeno va letto tenendo conto che l’esclusione protratta dal mercato del lavoro rende assai più probabile di restarne per sempre esclusi – per tutti ma in particolar modo per le immigrate –. Il problema è comune a molti Paesi, e spiega i particolari sforzi messi in atto a livello europeo per incoraggiare l’occupazione delle immigrate madri, con tangibili risultati nel loro tasso di occupazione, passato dal 41,6% del 2007 al 45,9% del 2019 nel complesso dei Paesi dell’Unione[2]. Occorre, dunque, fare di più e fare presto, prima che l’inattività si traduca per molte giovani immigrate in esclusione perenne da questo fondamentale veicolo di emancipazione economica e partecipazione sociale.

Quanto ai giovani, è sufficiente ricordare come l’Italia è uno dei tre Paesi europei – insieme a Regno Unito e Germania – col più elevato numero di giovani stranieri per rendersi conto di quanto importante sia il loro peso su una popolazione giovanile fortemente assottigliata dai bassi tassi di natalità degli ultimi decenni, e dunque di quanto il loro destino sia di straordinaria importanza per la tenuta della competitività economica e della coesione sociale. Oggi i giovani stranieri esprimono livelli di partecipazione al mercato del lavoro assai più elevati degli italiani (il tasso di attività degli under29 è pari al 39,9% per gli italiani, al 51,4% per gli stranieri comunitari e al 49,8% per gli extra-comunitari), riuscendo a guadagnare qualche vantaggio in termini occupazionali (il tasso di occupazione si colloca rispettivamente al 31%, 42,7% e 37,8%), ma risultando altrettanto a rischio di disoccupazione (il tasso di disoccupazione si colloca al 22,4% per gli italiani, al 16,9% per gli stranieri comunitari e raggiunge il 24% per i giovani extra-comunitari).

Soffermando l’attenzione sui giovani occupati, quelli stranieri risultano assai più deboli dal punto di vista della dotazione di credenziali formative e assai più spesso collocati in posti a bassa qualificazione; nel caso dei giovani lavoratori extra-comunitari, oltre 9 su 10 svolgono un lavoro a bassa qualifica e bassa retribuzione. Una collocazione che ha sicuramente a che vedere con la povertà educativa: i giovani stranieri hanno, in quasi tre casi su quattro, un livello di istruzione equivalente, o addirittura inferiore, alla licenza media, e in circa 5 casi su 10 hanno già abbandonato il sistema formativo. E tuttavia, nel Paese che registra il più alto tasso di over-qualification dell’Unione Europea, sia per i nativi sia per gli stranieri, il rischio di dissipazione dei propri capitali formativi si accentua fortemente nel caso degli immigrati, col risultato che un extra-europeo con un livello di istruzione terziaria ha due volte tanto un italiano la probabilità di svolgere un lavoro per il quale non è richiesta una laurea[3].

Occorre, dunque, fare di tutto per «evitare di perdere una generazione che sta attraversando la seconda crisi economica e del lavoro nel giro di pochi anni», investendo «con politiche economiche che favoriscano il lavoro di qualità, in particolare quello dei giovani, e che siano associate a politiche mirate alla riduzione degli svantaggi che rendono alcuni giovani più vulnerabili di altri»[4]. È necessario vigilare affinché non si ripeta l’errore di questi anni – ovvero il tentativo (fallito) di uscire definitivamente dalla crisi al prezzo di un riallineamento verso il basso della qualità complessiva dell’occupazione –, investendo sul lavoro qualificato e adeguatamente tutelato. Ed è necessario ridurre gli svantaggi che rendono i giovani immigrati più vulnerabili degli altri. Come ha sottolineato l’ex governatore della Banca europea, Mario Draghi[5], in un discorso ampiamente ripreso dai media, “ai giovani bisogna dare di più”. A tutti i giovani e a quelli stranieri forse ancor di più. In particolare ora perché, per riprendere ancora le sue parole, “questo è il momento della saggezza nella scelta del futuro che vogliamo costruire”.

 

Laura Zanfrini, responsabile settore Economia e Lavoro

 

[1] Illuminante, al riguardo, la percentuale delle donne con figli al di sotto dei 5 anni di età che dichiara di rinunciare al nido o altri servizi per l’infanzia perché troppo costosi: l’8,9% delle italiane, il 31,2% delle straniere comunitarie e il 37,2% delle comunitarie.

[2] Peraltro, questo risultato può essere dovuto anche alla crescita dei livelli di qualificazione delle immigrate più giovani entrate più di recente nell’età attiva.

[3] Belmonte M., Grubanov-Boskovic S., Mazza J. (2020), Foreign Degrees, Region of Birth and Under-utilisation of Tertiary Education in the EU, Joint Research Centre European Commission, Publications Office of the European Union, Luxembourg.

[4] Direzione Generale dell’immigrazione e delle Politiche di integrazione (a cura di) (2020), X Rapporto Annuale. Gli stranieri nel mercato del lavoro in Italia, luglio. Citazione a pag. 57.

[5] Intervento al 41° Meeting di Rimini, 18 agosto 2020.