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La situazione migratoria torna (in qualche misura) all’attenzione del Consiglio europeo

L’agenda

Come prevedibile, l’agenda del Consiglio europeo del 24-25 giugno 2021 ha continuato a individuare come questione preminente il contrasto del rischio epidemico a livello continentale e globale, oltre ad affrontare il pericolo per la tenuta e la coerenza del processo d’integrazione europea rappresentato dall’approvazione della norma anti-LGBTQ in Ungheria – problema trattato finora in via informale, o con interventi alquanto “eterodossi” rispetto al normale funzionamento dell’Unione, come la recente minaccia di apertura di una procedura d’infrazione da parte della Commissione europea[1].

Tuttavia, l’inserimento della questione migratoria al secondo punto dell’ordine del giorno del Consiglio europeo segnala, perlomeno in qualche misura, una ritrovata attenzione da parte del massimo organo di indirizzo politico dell’Unione europea, che non si esprimeva sul tema dal 2018. A spingere per l’inclusione del tema in agenda sono stati soprattutto i capi di governo italiano e spagnolo, fra i più sensibili agli effetti della ripresa dei flussi migratori, nonché i più interessati e ben disposti rispetto a un coinvolgimento dell’Unione e degli altri Paesi membri nel governo del fenomeno. In realtà, secondo quanto riportato dalle fonti d’informazione, il tempo della riunione e l’attenzione effettivamente dedicati alla discussione del tema sono stati estremamente limitati. Nessuno dei capi di stato e di governo ha proposto emendamenti alla bozza del testo delle conclusioni o richiesto di discutere nel merito il tema; lo stesso Mario Draghi non ha richiesto alcuna aggiunta al testo preparato prima della riunione, a seguito dell’incontro bilaterale con Angela Merkel e i contatti preliminari avuti a Bruxelles. Nonostante ciò, la messa in agenda del tema migratorio ha contribuito a ridare allo stesso una certa salienza, anche a livello di discorso pubblico, specialmente dopo che le fasi più acute dell’emergenza sanitaria avevano indotto, oltre a più o meno diffuse restrizioni agli spostamenti umani in generale, la ridefinizione d’urgenza di obiettivi e allocazioni di risorse, materiali e non, delle istituzioni comunitarie e dei Paesi membri.

Ciò è tanto più rilevante se si considera che, come quasi sempre accade in situazioni d’emergenza, la trasformazione delle agende politiche europee non può essere ridotta a una semplice risposta “cibernetica” dell’autorità pubblica finalizzata esclusivamente a neutralizzare o contenere il pericolo imminente. I rischi sanitari ed economici generati dalla pandemia di COVID-19 hanno infatti anche portato a una “gerarchizzazione” delle questioni politiche da parte di forze politiche e di governo a livello nazionale e continentale. Queste ultime, dando voce e al contempo alimentando attivamente orientamenti più o meno diffusi all’interno dell’opinione pubblica, hanno potuto inquadrare il tema delle migrazioni come secondario o dannoso rispetto alla protezione della salute della popolazione, ma anche al sostegno delle attività economiche colpite dagli effetti della pandemia. Ovviamente, riconoscere la presenza di narrazioni finalizzate a presentare una stretta alternativa fra la protezione della salute dei cittadini e l’accoglienza dei migranti non significa disconoscere l’oggettiva, e a volte drammatica, necessità di individuare ordini di priorità ed elaborare strategie adeguate cui sono stati posti di fronte i decisori politici. Nondimeno, come notato da alcuni studi, solo in una prima fase dell’emergenza pandemica, è prevalso un effetto “rally ‘round the flag” e la volontà di molte forze politiche altrimenti “anti-establishment” di presentarsi come soggetti affidabili in vista di possibili future coalizioni di governo. A partire dall’estate del 2020, invece, la cosiddetta “destra populista”, sia di governo che d’opposizione, ha riattivato la propria piattaforma euroscettica, enfatizzando l’opposizione fra il nazionalismo da esse promosso (tanto più in presenza di un inusitato rischio esistenziale) da una parte, e il cosmopolitismo promosso dalle istituzioni europee e da alcuni Paesi membri dall’altra. In particolare, i governi di Repubblica ceca, Ungheria, Polonia e Regno Unito e i partiti d’opposizione di analogo orientamento tedeschi e spagnoli hanno richiesto la chiusura incondizionata dei confini ai flussi migratori per evitare il rischio di contagio proveniente dai paesi di origine e transito, mentre Marie Le Pen in Francia e Matteo Salvini in Italia hanno apertamente accusato i propri (e gli altrui) governi di prendersi cura dei migranti invece di concentrarsi esclusivamente sui propri connazionali. Inoltre, la critica dalle politiche neo-liberiste promosse dall’Unione europea, accusate di essere causa degli effetti nefasti sui servizi sanitari nazionali, e l’organizzazione del malcontento di alcuni settori sociali particolarmente colpiti dalla recessione (in particolare piccoli commercianti e lavoratori non specializzati) hanno ulteriormente rafforzato le forze euroscettiche anche di sinistra. Il fatto che il Consiglio europeo abbia dato nuovamente attenzione alla questione migratoria, pur lungi dall’implicare una maggior efficacia rispetto al passato degli approcci proposti, segnala perlomeno una volontà di riportare a una qualche forma di normalità non solo l’agenda dell’Unione – ricominciando a considerare i rapporti con l’ambiente esterno e problemi strutturali quali appunto il fenomeno migratorio – ma anche il suo funzionamento istituzionale. Nei periodi più acuti dell’emergenza, infatti, le attività soprattutto del Parlamento, ma anche del Consiglio, sono state fortemente ridotte a causa di ostacoli strutturali causati ad esempio dalle caratteristiche dei rispettivi processi decisionali (improntati alla deliberazione e alla negoziazione), nonché dell’inesperienza nell’applicazione di modalità di funzionamento in situazioni di crisi acuta, a differenza della Commissione o dei vertici online d’emergenza dei capi di governo.

 

I contenuti delle conclusioni

Reindirizzando l’attenzione della politica europea verso una questione ineludibile come quella delle migrazioni internazionali, il Consiglio europeo di giugno ha segnato un “ritorno alla normalità” dei processi politici dell’Unione che ha tuttavia comportato anche la ripresa degli usuali inquadramenti concettuali e delle strategie politiche applicati al tema. Come si evince fin dalle prime righe della sezione delle conclusioni del Consiglio europeo dedicate alla migrazione (punto 11), l’obiettivo principale dell’Unione rimane la riduzione dei flussi irregolari, che, seppur diminuiti in generale negli ultimi anni, a causa di alcuni sviluppi riscontrati su alcune tratte, destano “serie preoccupazioni” che richiedono “vigilanza continua” e “azione urgente”. Il tono del comunicato, dunque, continua a risuonare di un’impostazione prevalentemente emergenziale, come confermato dalle linee guida contenute nel punto 12 finalizzate a prevenire la perdita di vite umane e a diminuire la pressione ai confini esterni. La combinazione di logiche rispettivamente umanitaria e securitaria è coerente con l’intento da tempo dichiarato dall’Ue d’improntare la propria azione esterna sia a principi normativi, sia a criteri di pragmatismo politico. Nondimeno, fatta salva la doverosa menzione della ricerca delle cause di fondo degli spostamenti umani, l’approccio proposto è indirizzato per lo più al perseguimento di obiettivi di portata relativamente ristretta, ovvero, nello specifico: il sostegno ai “rifugiati” (sic), ovvero ai potenziali richiedenti asilo, e agli sfollati (displaced persons); la creazione di capacità di gestione delle migrazioni; lo sradicamento dei fenomeni di introduzione irregolare e di traffico di esseri umani (smuggling and trafficking); il rafforzamento dei controlli di frontiera; la cooperazione nelle operazioni di ricerca e salvataggio; la gestione della migrazione legale nel rispetto delle competenze nazionali; la garanzia de l rimpatrio e la riammissione degli stranieri già presenti nell’Area Schengen.

Ancora una volta, gli sforzi si concentrano innanzitutto sul trattamento delle manifestazioni più acute e immediatamente rischiose – per i Paesi membri e i migranti – del fenomeno dei movimenti umani di massa. Da una parte, l’enfasi posta sull’applicazione di un approccio “sull’intera tratta”, con la realizzazione e il rafforzamento di partenariati e cooperazioni con i paesi di origine e di transito può essere letta come segno della volontà del Consiglio europeo di espandere la portata dell’approccio dell’Unione; d’altra parte, al più ampio raggio geografico non pare corrispondere un impegno altrettanto evidente a ri-concettualizzare il fenomeno migratorio e la corrispondente politica europea – ovvero, per nominarne alcune, il rapporto fra migrazioni forzate e non-forzate, i criteri di valutazione delle domande di protezione internazionale, le modalità di gestione dei flussi, ad esempio considerando la possibilità di gestire corridoi istituzionalizzati dai paesi di origine e transito, oltre ovviamente all’annosa questione della redistribuzione dei richiedenti asilo fra i Paesi membri. L’impegno per la ricerca di un equilibrio fra principi normativi e pragmatismo politico – e le difficoltà intrinseche di tale obiettivo – sono ribadite dall’intento di creare rapporti “flessibili” e “su misura” con i paesi d’origine e di transito, pur mantenendo una stretta cooperazione con l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni unite e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni.

L’enfasi posta sui rapporti con i paesi di transito può anche essere letta in continuità con gli sforzi compiuti in passato dall’Unione per integrare la sua politica delle migrazioni con le relazioni con i paesi del vicinato, con i quali condivide 15.000 chilometri di frontiere terrestri e 67.000 di confine marittimo.

Per quanto riguarda la governance della politica delle migrazioni e dell’asilo, il Consiglio europeo non ambisce a ridefinizioni impegnative dei rapporti inter-istituzionali o fra livelli di governo, ma afferma piuttosto la necessità di agire con concretezza e senso pratico, massimizzando l’efficienza degli strumenti e degli incentivi già a disposizione dell’Unione e dei Paesi membri. Le specifiche linee guida fornite dal Consiglio europeo alle istituzioni comunitarie imprimono ulteriormente un senso di urgenza all’azione da intraprendere – urgenza che, al netto degli effetti di infinita procrastinazione di riforme più strutturali dell’approccio dell’Ue, non è peraltro infondata, poiché, secondo i dati forniti da Frontex, il numero di attraversamenti illegali ai confini esterni dell’Unione è arrivato a circa 47.100 unità nei primi cinque mesi del 2021 (ovvero il doppio di quelli rilevati nello stesso periodo dell’anno precedente). Significativamente, il Consiglio esorta la Commissione e l’Alto rappresentante, in stretta collaborazione con i Paesi membri, a rafforzare “immediatamente” azioni concrete con i paesi d’origine e di transito identificati come prioritari, fornendo loro “sostegni tangibili”. In linea con l’approccio generale, il vertice europeo esorta gli stessi soggetti istituzionali a elaborare piani d’azione destinati ai paesi d’origine entro l’autunno del 2021, indicando specifici obiettivi, ulteriori misure di sostegno e concrete sequenze temporali, e invita in particolare la Commissione a utilizzare al meglio almeno il 10% dei 79,5 miliardi di euro a disposizione del Political agreement on the Neighbourhood, Development and International Cooperation Instrument (NDICI) – ‘Global Europe’ (all’interno del quadro finanziario pluriannuale 2021-2027), in combinazione con i fondi provenienti da altri strumenti rilevanti, per azioni relative alle migrazioni, presentando i propri piani al Consiglio entro novembre.

L’ultimo punto delle conclusioni dedicate al tema esprime la condanna e il rifiuto da parte del Consiglio europeo di qualsiasi tentativo da parte di paesi terzi di strumentalizzare i migranti per i propri fini politici. Non può sfuggire che tale utilizzo strumentale sia abitualmente messo in atto anche da governi e forze politiche dei paesi membri; d’altro canto, sarebbe ingenuo – e problematico in termini “costituzionali”, data la struttura politica e istituzionale dell’Unione – pretendere da parte del Consiglio europeo una censura altrettanto esplicita di condotte tenute da parte di propri componenti. Ad ogni modo, il passaggio è ritenuto essere frutto di una richiesta del governo spagnolo, con riferimento all’allentamento dei controlli alla frontiera con Ceuta e Melilla da parte delle autorità marocchine (a causa probabilmente del ricovero in un ospedale spagnolo del capo di un movimento per l’indipendenza del Saharawi) risultato a metà maggio nell’arrivo di migliaia di migranti nelle exclave spagnole.

 

Le questioni aperte

I riferimenti alla collaborazione con i paesi terzi contenuti nelle conclusioni del Consiglio europeo non forniscono indicazioni chiare su una questione estremamente delicata quale i rapporti con la Turchia (da considerare ormai alla stregua di un paese terzo, dato che i negoziati per la sua ammissione sono congelati dal 2018 a causa dell’involuzione democratica del paese), né sui possibili sviluppi della proposta del ministro degli esteri tedesco Heiko Maas relativa a un aggiornamento della “dichiarazione congiunta” fra Ue e Turchia – ovvero l’accordo “quasi legale” del 2016 che permette di respingere in Turchia i migranti irregolari in arrivo nelle isole dell’Egeo, così da ridurre i flussi lungo la rotta balcanica[1] – e che potrebbe essere approvato dal Parlamento europeo entro il mese di luglio. Significativamente, la questione è stata discussa in maniera informale a seguito della riunione del Consiglio europeo. Al momento, l’unico dato certo è la proposta da parte della Commissione di allocare, entro i prossimi tre anni, 5,7 miliardi di euro per il finanziamento degli aiuti forniti ai richiedenti asilo siriani dalla Turchia, dal Libano e dalla Giordania e da altri attori regionali, non solo in termini di sostegno dei bisogni più urgenti, ma anche per la formazione professionale e lo sviluppo di possibilità d’impiego. È peraltro difficile non notare come l’accusa di “ricatto” da parte di paesi terzi contenuta nelle conclusioni potrebbe essere applicata non solo al governo marocchino o – come ha in sostanza fatto la Presidente lituana Gitanas Nausėda durante la riunione, a quello Bielorusso – ma anche alla Turchia[2]. Se alcuni Paesi membri esprimono apertamente le proprie riserve rispetto alla leva politica fornita a Erdoğan dalla “dichiarazione congiunta” – leva che è stata effettivamente utilizzata nel febbraio del 2020 con l’apertura del confine turco[3] –, altri come la Germania (principale destinazione dei flussi lungo la rotta balcanica) e la Grecia (che ha tutto l’interesse a riconoscere lo scomodo vicino come un “paese terzo sicuro” presso il quale poter respingere i migranti) hanno posizioni decisamente diverse al riguardo.

Di fatto, anche la discussione di un aspetto centrale come la gestione delle rotte provenienti dall’Africa è stata rimandata all’autunno, quando, come detto, la Commissione presenterà il piano d’investimento della percentuale di risorse dello NDCI destinate alla politica delle migrazioni. Solo a quel punto si saprà se la riorganizzazione complessiva del budget dedicato alla questione da parte della Commissione permetterà di assegnare alle rotte meridionali più dei 2 miliardi che rimarrebbero disponibili se si confermassero le voci che prevedono un’allocazione di circa 6 miliardi alla gestione della rotta orientale. Infine, fra i “punti mancanti” più evidenti nell’agenda e nelle conclusioni del Consiglio europeo vi è certamente il Patto sulle migrazioni e l’asilo presentato a settembre 2020 dalla Commissione, rispetto al quale evidentemente le divergenze fra i capi di stato e di governo rimangono al momento tanto insormontabili da sconsigliarne la discussione, come riconosciuto dallo stesso Mario Draghi.

In conclusione, la comparsa almeno nominale del tema migratorio nell’agenda del Consiglio europeo va valutata nella sua qualità di prima tappa di un processo che potrebbe arrivare un giorno a discutere – e magari risolvere – gli aspetti più divisivi della questione, come appunto la redistribuzione dei richiedenti asilo (che rimarrebbe comunque volontaria anche se il Patto fosse approvato). Presidenze di turno del Consiglio più sensibili alla questione, nonché il superamento delle scadenze elettorali in Germania e Francia, potrebbero creare condizioni più favorevoli a una discussione nel merito del tema migratorio fra circa sei mesi.

 

19.7.2021

Antonio Zotti, Ricercatore Fondazione ISMU

[1] Chi scrive ritiene l’intervento “eterodosso” per il peculiare doppio registro tenuto dalla Commissione nella sua opposizione alla legge ungherese che vieta la diffusione presso un pubblico infantile di contenuti di tipo omosessuale. Da un lato, i commissari competenti hanno già annunciato la loro intenzione di intervenire poiché ritengono ingiustificabili i limiti che la norma nazionale impone ai contenuti televisivi e telematici, attualmente regolati dall’Ue attraverso la Direttiva sui servizi di media audiovisivi e la Direttiva sul commercio elettronico. Sotto questo aspetto, la Commissione svolgerebbe la sua funzione di “guardiana dei Trattati” in maniera lineare rispetto alla sua condotta tradizionale. D’altro lato, la volontà di combattere il rischio di violazione di un interesse pubblico legittimo è stata espressa dalla Commissione anche in termini “semi-costituzionali” di “protezione dei diritti di tutti i cittadini” europei, prefigurando un ambito di competenza e una funzione per nulla consolidati con riferimento all’istituzione, e che infatti ha generato dibatti a livello politico e analitico.
[2] La “dichiarazione comune” fra Ue e Turchia, basato sul Piano d’azione comune fra le due parti ha natura prevalentemente politica, mancando delle caratteristiche necessarie a considerarlo un atto legale formale o un accordo vincolante contenuto nell’ambito del diritto internazionale pubblico; la dichiarazione comune ha tuttavia implicazioni legali rilevanti per quanto riguarda l’applicazione delle norme di riammissione fra la Turchia e, rispettivamente, la Grecia e l’Ue, come pure l’applicazione del diritto d’asilo ai migranti che attraversano il confine fra Turchia e Grecia. Si veda R. Lehner, 2018, “The EU-Turkey-‘deal’: Legal Challenges and Pitfalls”, International Migration, vol. 57, n. 2.
[3] Nei rapporti fra Ue e Turchia, peraltro, di recente si è dovuto prendere atto della continuazione dell’impasse nord cipriota, dato che i colloqui informali tenuti sotto l’egida delle Nazioni unite poco prima della riunione del Consiglio europeo non ha portato all’avvio di negoziati fra le parti.
[4] Si veda a tal proposito, di A. Zotti, 2020, “L’oplita, il giocatore d’azzardo e il mercante compiaciuto al tempo della “grande peste”: Grecia, Turchia e Unione Europea alle prese con i nuovi flussi migratori” (https://www.ismu.org/loplita-il-giocatore-dazzardo-e-il-mercante-compiaciuto-al-tempo-della-grande-peste-grecia-turchia-e-unione-europea-alle-prese-con-i-nuovi-flussi-migratori/).